Un articolo scritto da Lidia Borghi.

Omaggio allo spettacolo teatrale di Danilo Gattai

Metti una sera d’estate. L’aria è fresca, piacevole dopo l’ennesima afosa giornata romana. Ti ritrovi davanti ad un palco i cui riflettori sono spenti. Per ora. Tra poche ore le tavole di quel palcoscenico si animeranno.

Metti che un gruppo di persone prenda posto, nella penombra, in una platea improvvisata e che, d’un tratto, le luci si accendano. Ed ecco che una danzatrice muove i primi passi sulle tavole di legno del palco. Ha il volto seminascosto da una coltre color rosso scarlatto, lo stesso che tinge il sangue che scorre nelle vene. Quel sangue è il fluido più prezioso del protagonista di un lavoro teatrale assai innovativo. Un sangue corrotto, infetto, scabroso, ma solo per chi tale lo considera.

La danzatrice continua leggiadra il suo volo, metafora della vita dell’interprete principale di I cum, ergo sum, scritto e diretto da Danilo Gattai, attore ed autore teatrale di grande talento che, all’interno dei laboratori teatrali organizzati dal Di’ Gay Project, ha messo su uno spettacolo inusuale, crudo, intelligente, mai banale, ricco di spunti di riflessione, incentrato sul tema dell’omosessualità maschile in tutte le sue sfaccettature.

Dalla presa di coscienza dell’orientamento omosessuale alla ricerca dell’altro; dalla frequentazione assidua dei luoghi delbattuage allo scontro con persone che sono alla ricerca di sesso facile e veloce, che non lasci traccia, se non nell’anima di chi vuole di più, vuole andare oltre, vuole giungere al cuore del maschio di turno; dallo scontro aperto con ragazzi dalla doppia vita, normali di giorno ed omosessuali di notte – con fidanzata a carico – fino alla scoperta della sieropositività.

E poi c’è quella madre, al cui personaggio appartengono le battute iniziali dello spettacolo, così come quelle finali: è lei il fulcro di tutto, è lei la genitrice di cotanta diversità, è lei che sospetta ma non interviene, subodora ma è impotente, capisce ma non comprende. Non può, non ne ha i mezzi, civili prima ancora che personali. È la società cui la donna appartiene a non capire, essa per prima, che si può nascere maschi e, malgrado ciò, amare persone appartenenti al proprio sesso. Malgrado… Mal grado: è così che appaiono i froci agli occhi della gran parte della gente, un grado tristo, cattivo, una categoria che a mala pena – a stento – arranca nella società, ne vive ai margini, viene schifata dai “normali”, viene vilipesa, infamata, offesa, stigmatizzata.

E quella madre è sempre lì, a ricordare al nostro uomo il suo stigma. Lei, con indosso una vestaglia rossa, sciatta quanto basta per trasmetterci la sua resa di fronte ad una vita che è troppo dolorosa, farà da cornice all’intera rappresentazione, durante la quale le diverse voci del diverso, il protagonista, vengono rigettate addosso alla platea silenziosa, attonita, commossa, da cinque ragazzi. Cinque differenti livelli di dolore ed altrettanti temi scottanti che, per tono e crudezza, giungono sui visi delle persone spettatrici come tanti schiaffi.

Dal disgusto alla profonda umanità, che traspare dalle battute dei cinque interpreti, la voce narrante attraverso di loro parla, urla, piange, strepita, si addolora, riesce vincitrice dall’improba lotta con una vita che la gente comune vorrebbe corrotta dalla cosiddetta peste del ventesimo secolo. Come un povero cristo che si divincola per liberarsi dei chiodi di una croce chiamata HIV, il protagonista della pièce teatrale riesce ad uscire dalla presa mortale di un virus che, fino a pochi anni fa, non lasciava scampo e che oggi, grazie ad una terapia mirata, sta garantendo un’alta qualità di vita a tante persone, in Italia.

E la trasandata madre resta lì, a meditare sui suoi dolori, sempre più incapace di gestire quel figlio scomodo; preferisce tacere, intenta ad ultimare il suo lavoro al tombolo, mentre il tempo passa e il protagonista continua ad ammucchiare, in un angolo del suo cuore infranto, storie storte con uomini dalla mentalità distorta, abituati a simulare e dissimulare, a mentire ed infangare, a scopare ed a piangersi addosso.

E la voce narrante insiste, attraverso i cinque alter ego, nel rivendicare la sua identità personale, forte più della morte: «Io sono altro da quegli attimi rubati di sesso sfrenato! Io sono qualcosa in più di quelle masturbazioni feroci, di quella ricerca del piacere a tutti i costi! È mai possibile che l’omosessualità maschile sia una mera questione rettale? Io sono oltre gli abusi fatti alla mia anima, al mio cuore ed al mio corpo! Io sono oltre!» Oltre… Oltre le tenebre di troppe notti passate a scappare da sé, oltre la prigione delle menzogne, oltre la gabbia della sieropositività. “Si fotta la sieropositività! Io urlo, quindi sono!

La stanca madre è ancora lì, a dominare la scena. A lei spetterà l’ultima battuta, a lei l’uscita di scena; come è entrata, così ne uscirà, quando l’ultimo grido sarà uscito dalla gola delle cinque voci, quando l’ultimo loro gesto avrà smesso di espandersi verso il pubblico, quando l’ultimo passo della danzatrice, incollata ad una delle quinte, si sarà compiuto. Quando, infine, l’ultima lacrima del protagonista si sarà asciugata, segno che la lunga battaglia contro il dolore sarà stata vinta.

Per quella madre che non riesce ad essere dea madre, per una società che non riesce ad affrontare l’omosessualità senza inorridire, per il disgusto di coloro che si sentono infettati dalla diversità altrui, per la criminalità di chi sa dell’HIV ma continua a tacerne. Per costoro esisterà sempre una forma di riscatto. Essa ha a che fare con termini – che non sono solo parole – quali: identità personale, dignità e rispetto. Pietà per chi ama.

Grazie a Davide Cortese, Filippo Di Lorenzo, Ezio Di Maria, Mirko Ferramola e Danilo Zuliani, i cinque alter ego del protagonista.

Grazie a Maria Laura Annibali, la madre attonita.

Grazie a Danilo Gattai, il protagonista di un lavoro autobiografico che va oltre gli steccati del pregiudizio.