Intervista a Smazing

“Noi lesbiche abbiamo due stigmi sociali: siamo donne e siamo omosessuali”

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La prima volta che ho parlato con Maria Laura Annibali è stata per un’intervista sulle unioni civili: era gennaio e lei era “sposata” da tre mesi con Lidia, dopo 15 anni insieme. Il racconto della felicità di quel giorno è durato due minuti, perché poi la nostra conversazione si era naturalmente incanalata sulla lista delle “cose da fare ancora”. E Maria Laura, 72 anni, da tre presidente dell’associazione Di’Gay Project di Roma, per queste “cose” combatte quotidianamente. Visto che siamo nella settimana della “Giornata internazionale contro l’omofobia” (il 17 maggio 1990 l’Organizzazione mondiale della sanità ha eliminato l’omosessualità dall’elenco delle malattie mentali, Ndr), ho pensato di fare con lei un’altra chiacchierata.

intervista a cura di Antonella Scambia

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Maria Laura, che tempi sono questi? La cronaca recente ci ha raccontato l’arresto di otto ragazzi per il pestaggio, a gennaio, di due giovani omosessuali a Milano, e a Mosca c’è stato il fermo dell’attivista Yuri Guaiana, accusato di manifestazione non autorizzata per aver cercato di consegnare una petizione contro le persecuzioni di cui sono vittime i gay in Cecenia.
Intanto, facciamo una precisazione: quella che festeggiamo è la giornata internazionale contro la omotransfobia, perché le discriminazioni riguardano anche i trans. Poi, per la comunità Lgbt, o meglio Lgbtqi, sono tempi in cui bisogna scendere in piazza. Ci sono situazioni tremende in alcuni paesi stranieri: ci sono paesi in cui l’omosessualità è un reato punito con la pena di morte, o dove i gay sono regolarmente torturati e uccisi. In questi giorni parliamo di Cecenia, ma non c’è solo la Cecenia.

Anche in Italia dobbiamo scendere in piazza?
Certo: dobbiamo completare la legge Cirinnà con la stepchild adoption e dobbiamo arrivare al matrimonio egualitario. E dobbiamo fare una legge contro l’omofobia: sarebbe un segnale importante. È una legge necessaria: diventerebbe lo strumento per combattere tutte le discriminazioni e gli insulti di cui ancora siamo regolarmente vittime. Ti faccio un esempio: quando su “Stato civile” di RaiTre è andata in onda la puntata con l’unione mia e di Lidia, sulla mia pagina Facebook e su quella di RaiTre sono arrivati commenti del tipo “devono farti l’elettroshock” e “sei rimbambita”. Una donna ha scritto che, vedendo in televisione il nostro bacio, castissimo peraltro, l’abbiamo fatta vomitare. E con noi si sono limitati agli insulti. A una coppia di ragazze sarde, apparse nello stesso programma, sono arrivate minacce di morte. Sono cose che fanno male. Io che sono profondamente cristiana ti dico: Gesù non ha mica insegnato l’odio. Eppure molti di quelli che ci insultano, si dicono cristiani.

C’è una differenza, nella percezione degli altri, fra omosessualità maschile e femminile?
C’è differenza: io credo che per le persone ignoranti o, meglio, non illuminate, ci sia un sentimento di maggior disgusto nei confronti degli uomini. In 17 anni di attivismo ho sentito più volte “che schifo pensare a quello che fanno due uomini”, non “che schifo pensare a quello che fanno due donne”.

Però tu non sei stata tranquilla nel vivere il tuo lesbismo, vero?
Normalmente noi lesbiche siamo più nascoste perché abbiamo due stigmi sociali: siamo donne, e siamo lesbiche. Io ho passato una vita a nascondermi: ho preferito essere considerata una sfascia-famiglie che una omosessuale. Ho avuto una relazione per 23 anni: quando è cominciata, erano gli anni Settanta, ho capito definitivamente che ero lesbica. Però quando la mia compagna mi chiamava al lavoro, dicevo che era la segretaria del mio amante.

Perché? La tua era una paura giustificata, consentimi, dai “tuoi tempi”?
Sì e no: la mia è stata una lunga accettazione. Negli anni Sessanta quasi non si sapeva chi erano le lesbiche: ho avuto una decina di fidanzati ma neanche un amante. Per dirti, quando Filippo Soldi mi ha intervistato per il suo documentario “Non so perché ti odio” (presentato al Festival di Roma nel 2014, Ndr), ho parlato del mio passato dicendo “quando ero etero o credevo di esserlo”. Ma la mia storia può essere simile a quella di altri, se parliamo di come affrontare la reazione altrui. Ero funzionaria direttiva alla Commissione tributaria della Provincia di Roma: avevo capito che nel lavoro mi sarebbe successo di tutto se avessi dichiarato la mia omosessualità quindi, per allontanare ogni sospetto, conducevo una doppia vita. Di giorno esageravo con la mia femminilità: ero molto corteggiata, e mi lasciavo corteggiare; la sera tornavo a casa dalla mia compagna e la nostra gatta. Lei era molto più libera di me nel vivere con trasparenza la nostra relazione, ma io frenavo. La fine della nostra storia ha preceduto di poco il mio pensionamento. Lì c’è stata la svolta: con l’aiuto della mia amica Antonella Montano, che è direttrice dell’istituto Beck, e di una pastora evangelica ho trovato la forza di esprimere i miei pensieri e me stessa.

E hai cominciato la “professione volontaria”, come si legge sul tuo sito.
Già. Mi sono data alla politica diventando molto attiva nell’associazionismo, e ho cominciato a realizzare i miei film-documentari, che sono il mio testamento spirituale: ora sto finendo il terzo, che chiude la trilogia de “L’altra metà del cielo”. In questi film indago il mondo del lesbismo e, attraverso le storie di tante persone, racconto anche la mia.

Forse in questi decenni una conquista c’è stata, almeno nel nostro Paese: non c’è più l’esigenza di nascondersi. O no?
Il grande cambiamento è cominciato con il World Gay Pride del 2000 a Roma: prima, di noi e dei nostri problemi non se ne parlava, poi siamo diventati argomento da prima serata. Ma io in quella manifestazione ho marciato dietro al corteo degli animalisti, perché il mio processo di coming out non era ancora completato, non tutti sapevano. I giovani rispetto alla mia generazione hanno un tappeto rosso, ma non è mica così semplice ancora, sai. C’è un problema fondamentale, che è quello della omofobia interiorizzata.

Che significa?
L’omofobia interiorizzata è la non accettazione di essere omosessuali, ed è una non accettazione che nasce anche dai preconcetti che sviluppiamo nel contesto sociale in cui viviamo, e che ti fanno pensare di essere “sbagliato” perché sei diverso da quello che vedi attorno a te. Proprio per il mio tipo di storia sono stata per dieci anni responsabile del gruppo di autocoscienza di Di’Gay Project: siamo pur sempre una minoranza, ma rispetto alle altre minoranze abbiamo il problema che spesso il contesto famigliare non è protettivo e accogliente come dovrebbe. Sai quanti giovani si uccidono ancora perché hanno paura della reazione dei genitori? Sai quanti genitori dicono “meglio un figlio drogato che frocio”? Per contro, sai quante famiglie in realtà sono accoglienti, ma non riescono a dimostrarlo tanto che il figlio ha comunque paura di fare coming out?

Che cambiamento culturale manca ancora in Italia?
Manca serenità, apertura e preparazione. La nostra è una società che ti condiziona talmente tanto che ti mette comunque paura a esporti. La cosa principale da fare è andare nelle scuole: mostrare che c’è una rete di associazionismo che può dare sostegno. Noi non siamo portatori di scandalo, siamo portatori di amore: alla società che male facciamo?

Antonella